"Non sono un 'Entertainer', e, quando canto, voglio solo
esprimere la mia anima. Sta tutto racchiuso in questa frase, essenziale e
profonda come un antico
aforisma, il senso dei concerti che vedono
protagonista le liriche e la musica illo tempore di Paul Simon. Ma, forse, anche
il termine "Concerto" sarebbe totalmente da rivedere e ripensare, perchè, più
che altro, il suo è stato una carezza, un soffio dello spirito, un abbraccio
trepido e delicatissimo al tempo stesso, denso di sublime "Understatement" e
privo di qualsiasi enfasi. Pieno zeppo, in compenso, di colori sfolgoranti e
ultra-solari, i gialli che
si trasformano in arancioni, i verdi in rossi
tenui, e questi in blu sfolgoranti e luminosissimi tali e quali a quelli --
dicono i bene informati -che - troneggiano in Paradiso
è zeppo anche -- e
soprattutto -- di suoni stupefacenti e altrettanto solari, prodotti da una band
che sembra "il resto del mondo", tanto è multiraziale e incredibilmente
versatile, abilissima nell'affrontare ritmi e melodie di ogni angolo del
globo.
Una band dai sette volti, ma praticamente senza nomi,
a parte
quello del veterano Steve Gadd alle percussioni, già compagno di viaggio di Paul
ai tempi del sodalizio fortunatissimo con Art Garfunkel.
Se pensiamo che sovente i comunicati ufficiali che annunciano i
concerti di Paul Simon non esplicitano, volutamente, i nomi e volti dei suoi
musicisti (non certo per dimenticanza o tracotanza), ci rendiamo immediatamente
conto di ciò che impone la già citata legge dell'"Understatement", tanto cara a
Paul,
che ne è, ovviamente, il prim'attore e il protagonista
indiscusso.
Già non aveva il "Physique du Role" della rockstar quando aveva
iniziato a cantare Paul Simon, all'incirca cinquant'anni fa. Ma ora, a
settant'anni quasi scoccati, il nostro Piccolo Grande uomo pare tutto,
nell'ordine: un tranquillo pensionato, il giardiniere della porta accanto, il
libraio del "Bookstore"
all'angolo, piuttosto che un divo della canzone. Si è
presentato ieri all'Arena vestito di nero, minuscolo, e l'unica civetteria che
talvolta si concede è un buffo cappellino rosso da giocatore di baseball, che
indossa più che altro per nascondere la calvizie alquanto incipiente.
Ma quando la parola cessa di essere parlata (ben poche cose, in
verità: più che altro la grande emozione di essere sul palcoscenico, un luogo
che lui non ama a dismisura) per diventare stupendamente cantata, ecco che il
miracolo si compie di nuovo.
E tutti coloro che hanno orecchie per intendere
e occhi per piangere, più che per guardare, immediatamente
comprendono di avere a che fare con uno dei massimi interpreti della canzone
americana contemporanea. Forse, addirittura, con uno dei componenti della
"Santissima Trinità", insieme a Bob Dylan e Tom Waits.
Nelle sue canzoni c'è, infatti, l'america sussurrata degli
amanti perduti, il sogno esistenziale degli adolescenti ancora ben provvisti del
senso della vita, la ninnananna canticchiata ai neonati nelle serate di luna
piena.
E poi c'è l'Africa nera scoperta ai tempi di "Graceland", la sarabanda
di ritmi e colori delle lande brasiliane, l'afrore della giungla e il colore dei
tropici. C'è la quotidianità di persone ordinarie che si legano, si separano,
indossano maschere d'argilla e compiono gesti ai confini della doppia
personalità pur di riuscire a districarsi nel traffico allucinante d'anime,
corpi ed atteggiamenti che popolano questo circo equestre assurdo che mette in
scena gli accadimenti umani.
E poi, ancora, c'è la sua voce, che adesso non azzarda più gli
arditissimi falsetti dei tempi lontani, contrassegnati dalla cooperazione
"MITICA" con Garfunkel, ma che è divenuta una sorta di icona pacata e
tranquilla, pienamente soddisfatta di sè, beata di una Beatitudine che è
difficile esprimere a parole: e forse è meglio così...
E poi, ancora e ancora e ancora.... C'è quel suo senso
così meravigliosamente geometrico, intellettuale, ai confini del "segaiolo"
nella costruzione della canzone, complesso eppure così semplice, che certo è il
massimo che si possa chiedere a un cantore dei giorni nostri. Ed è proprio per
questo che il suo canzoniere (non certo sterminato come quello dell'amico Bob
Dylan, ma sicuramente ben nutrito e corposo) rivela una straordinaria unità
stilistica, pur
nell'estrema diversità fra le creazioni di ieri e quelle di
oggi. Ed è per questo che il "Suo Pubblico", attempato e giovanissimo insieme,
canta all'unisono con lui non soltanto gli ever-green di sempre ("Mrs Robinson"
"The Sound of Silence", "The Boxer", "Old Friend", "Codachrome"), ma anche
canzoni nuovissime
come "Darling Lorraine" o "Old", circostanza che ha
visibilmente sorpreso il solitamente freddo e pacato cantautore newyorkese
(definirlo "Commosso" sarebbe un'esagerazione)...
Il Piccolo Grande Paul ha
dimostrato ancora una volta di essere uno "Storyteller perfetto" nel miscelare
il vecchio con il nuovo, splendidamente coadiuvato da una band realmente
fantastica: la saggezza introversa di "That's where I belong" con la sarabanda
ritmica di "Graceland", la pulizia interpretativa
di "Me and Julio down to
the Schoolyard" con il turbinìo di "Hurricane Eye", il toccante epitaffio di
"The Sound of Silence", preceduto da una chitarra western a delinearne contorni
melodici sotto quattro dita di pelle d'oca, con il dramma amoroso, e tragicomico
insieme, di "Darling Lorraine". Forse che
soltanto lui avrebbe potuto
trattare il tema della vecchiaia con l'acutezza e il soave senso del distacco
dimostrati in "Old": dove il procedere dell'età del protagonista (lui medesimo)
viene affrescato in parallelo con quello di Maometto, di Gesù Cristo e dello
stesso Dio Creatore (Umorismo / Cinismo giudeo?).
Concerto di un uomo in autenbtico stato di grazia, capace di
regalarci i quattro angoli del mondo e i propri antipodi, liberarli in
un'iperuranio così vasto, immensamente limpido, rievocando immagini antiche di
venti, venticinque anni, riattivando meccanismi non ancora spiegati da
psichiatria o psicanalisi che ci portano a snocciolare liriche sublimi, in
inglese, imparate a memoria tempo addietro, inesplorate da decenni con la
naturalezza con cui un bimbo afferra
il dito di una mano o un cagnolino
scaraventato in acqua muove le zampe anteriori.
Istanti roventi che fendono l'aria a velocità supersonica,
lunghe sorsate d'esistenza torbata che bruciano in gola... se bruciano,
ragazzi... La restituzione progressiva ai legittimi proprietari di
un'innocenza irrimediabilmente perduta nel tempo piuttosto che in nefandezze di
ordinaria / straordinaria amministrazione,
di una vita quasi allucinata,
sospesa dentro un'ovatta di luce blu:
Un'oceano, forse. Il Paradiso, più
probabilmente.
Di fronte all'ennesimo capolavoro di Paul Simon, che ha
colpito (e affondato) il corpo, l'anima e lo spirito del sottoscritto (come dei
3.000 intimissimi delicatamente sospesi in Arena), condotti, all'istante, in uno
stato di delizia e di abbandono che è parente prossimo dell'estasi, una parola
soltanto:
«Thank you, Paul»
Bedèo